Voglio scrivere qualcosa.
Qualcosa che non abbia parole d’urto, qualcosa che non
serva, ma che sia letto e basta.
L’altro giorno ero alla stazione. Ripensavo alla lista della
spesa scritta con dedizione e poi dimenticata sul tavolo come lista che pesa.
Fu mentre mi dicevo queste cose che lo rividi: ne era
passato di tempo, e per un attimo o forse cinque esitai, credevo fosse stata
l’immaginazione, il niente a cui pensare che mi avesse spinto a vederlo e
invece era lui. Ne riconobbi subito l’odore, mi urtò senza chiedere scusa, mi
sconvolse prendendosene il merito. Non ci parlavamo da secoli e non lo vedevo
da lustri. Era come rispolverare ogni cosa e metterla al suo posto.
Ero alla stazione: una suora mi chiese una sigaretta ma non
gliela diedi, le dissi che non poteva, non lei, non una suora. Le diedi un
rosario e lei ne fu sorpresa, disse che le sue litanie ormai si recitavano con
collane da bancarelle ricattando i
poveri neri e ridicolizzandoli perché il Signore è bianco.
Ero alla stazione: un ubriacone mi chiese di fare all’amore e
io, intanto che aspettavo il treno , accettai. Ricordo che fu la prima volta
che non sentii il peso dell’amplesso; fu la prima volta credo che non ne piansi
per il dolore e per la scorrettezza di un attaccamento autentico forte, intenso
caduco e meschino. Allora decisi di
innamorarmene. Lo salutai senza una parola, solo un cenno, quello delle mie
mani che conducono su per le gambe le mutandine. No, non esisteva alcuna forma di disagio, era bello e volevo non smettesse di guardarmi. Lo amai
senza saperlo. Lo amai e ne fui contenta.
Ero alla stazione, l’autista del servizio numero54 mi
schiacciò un piede e io ne fui contenta: era la prima volta che non sentii
dolore alcuno, solo urla di chi mi stava accanto, visto l’umano accaduto.
Ero alla stazione, un bambino mi chiese l’ora e io seguii il
mio istinto; gli diedi un ceffone uno di quelli che vedi nei film uno di quelli
belli.
Ero morta alla stazione