lunedì 17 dicembre 2012

La farfalla che visse un giorno

Vissi un sol giorno, 
ma non vissi d'un fiato. 
Non vissi in fretta: vissi un giorno e dentro un giorno.

Il fiore, persino, derise la mia volontà, la mia breve vita, derise il mio tempo, a contemplare il pastello delle luci, le sensualità delle ombre.
Prima che l'unico giorno, accogliente della vita mia potesse soffiarsi, riuscì a restare sospeso e a sospendere nell'aria un pensiero:
quanto è grande il non vivere in una vita lunga giorni,
quanto ci si affatica a recuperare il resto del già passato, 
quanto costa rimandare?

L'aria si sospese
il fiore odorò di meno, come a trattenere il respiro
la clessidra si gelò
la rugiada si posò in fretta
la natura attese un attimo
poi fu di nuovo
crudele.

Un giorno si perse fra i cinguettii e il traffico
le mie ali si strinsero, calore impercettibile.
Eppure risposero ad un senso, tutto.

(equilibrio e dissolvenza)

giovedì 25 ottobre 2012

L'evoluzione di un nome.

Buonanotte, sospirò uscendo finemente, con la sciarpa sempre al collo e una sola paura, quella di far del male all'aria. Entrando in casa, posando le chiavi al solito posto, Karl trovò un foglio di carta: il posto divenne insolito, immediatamente.
C'era scritto:

 Non dormo più, e mi inaridisco. Se fuori c'è il sole non ho voglia di uscire, per timore di sorridere. Così chiamo beata la bocca degli altri, che al sole si scalda. Me ne vado via, lo faccio quando è buio. Ho atteso che la luna non ci fosse, che le stelle non bruciassero gli occhi, che le banalità non arrivassero. Scusa, ho bevuto la bottiglia di vino. Ma qui, qui dentro, fa freddo. Fa sempre freddo qui, ma non stasera. Non ti scriverò di modi per cui ringraziarti: non saprei ringraziare le spalle. Coltivo dentro me un fiore, il seme l'ha portato il fiato tuo, domani non nascerà. Tu siediti, ora, prego, come ti dico. Non attraversarti le dita fra quei capelli, non fumare, sì, il bicchiere, il vino. Finiscilo tu. Sono singhiozzi di parole, Karl, stupidi singhiozzi di parole, che stritolano l'esofago, che riempiono le giornate. Fuggo via, lo faccio per noia, per una divisione in sillabe, no-ia, che a voce sembra lo scontro fra le lingue, fra la negazione e l'affermazione. Soffoco, Karl, di noia immensa, di malumore, soffro di inverno. E' la mia diagnosi. Ti ho lasciato lì sul letto l'Abc dei ricordi, ho tenuto con me la Z, ho lasciato a te le lettere e le combinazioni possibili. Ho preso dalla camera in fondo, quella che non apriamo da quel dodici novembre di tempo fa. Io l'ho aperta Karl, ho frugato fra la polvere. Non c'è più niente, nemmeno il suo ricordo. 
Passerò l'autunno fuori. A presto.

Pensò Karl, pensò. E si addormentò. Non ci sono finali, solo nuovi giorni, ogni giorno.

Karl vuol dire Uomo libero.

venerdì 12 ottobre 2012

Il cane e il soldato

Il cane leccò le ferite del soldato: la sua saliva era calda, sporca e arida, ma l'intenzione, la spinta del cane fu così bestiale che il soldato non seppe farlo smettere. Questi rinvenne tra il calore della saliva e le sue stesse smorfie di dolore. Si cercò l'equilibrio, tentò tre passi, al quarto scosse la terra: si alzò in piedi.
Quell'attesa inconcludente, fra rocce e selve, spilli e nemici, lo fece riflettere a lungo, proprio sul senso dell'attesa. Si paragonò a un cane. La sua esperienza in teatro e suo figlio sordo gli insegnarono il valore della mimica e delle parole espresse attraverso il movimento e i gesti della bocca, dei denti, della faccia. Si disse, ripetutamente: mi fa soffrire sentirmi solo come un cane. Sono solo come un cane. 
Nel pensarci, accettò il paradosso.
Stanco tornò a scaldar la terra, in attesa.

venerdì 21 settembre 2012

Routes



  
Carro mio,
traina sulle ruote tue il peso della noia, come fece nel sole Apollo, 
che poi si bruciò.
Carro mio, 
pieno di stoffe e di stazioni, 
soffia sulla ghiaia, 
sulla sabbia, 
sul pietrisco, 
sui simboli che l'uomo inventò e di cui l'uomo 
si meravigliò.
Carro mio,
porta gente dalle gambe stanche, 
sii più forte di tutti, 
separa la strada, inventati una storia.
Carro mio, 
annuncia la festa.

domenica 9 settembre 2012

L'umane relazioni

"Mi seducevano solo le biblioteche e i bordelli"

Il misantropo amò troppo l'umano possibile, il misogino si perse fra gli odori e i fiori del mondo che gli altri chiamarono donna. Ogni definizione si prende gioco dell'altra. Fra una biblioteca e un bordello c'è una gran differenza; ma occorre solo una foto delle strutture, dell'utenza e le distanze si rimpiccioliscono. La biblioteca e il bordello contengono corpi: l'una il corpo libro, l'altro il corpo ed altri corpi. Chi vi entra è a stomaco vuoto, chi esce ne trae almeno una sensazione di soddisfazione. Sfogli le pagine o sfogli un corpo, l'intenzione di chi ha fame, probabilmente è la stessa. Ma fu l'esclusiva del solo a sorprendermi fra i pensieri notturni. Quel solo si insinuò negli angoli dei miei sorrisi riducendoli in amarezza. Per ciò le insonnie sognanti mi facevano stancare di vivere: a che mi giova, pensai, vivere l'asfalto di un continente senza poterne mai conoscere le profondità? Dovevo andare in strada, smetterla di produrre realtà dimenticate dal reale, genuflettermi alle musiche, perché mia madre mi apparve in sogno, dicendomi ancora "per me esiste solo Bach". Fu così che desiderai con ogni forza tornare ai miei luoghi d'infanzia, passeggiare ancora fra le mie letture e qualche puttana in libertà, correre ai ripari da qualsiasi altra forma che assomigliasse a un uomo. Più desiderai solitudine, imponendole il dovere, più la solitudine si affacciava ad altri occhi. Lo incontrai, e sono certo che accadde in sogno. Gli attimi della mia gioventù rimasero in sospeso e a galla sulla mia età, sulle mie corrispondenze, sulle candele, sulle notti bianche, sugli amici di carta e sulla crudeltà delle cornici vuote, senza più nemmeno una foto. Insomma, quegli attimi di cosa avrebbero mai potuto godere alla vista di quell'uomo vestito di sogni e di voglie? Lo osservai non una, ma dozzine di notti, tutte notti insonni, a dozzine. Vagava per i cimiteri, respirava a occhi chiusi, sorrideva agli oggetti inanimati, dormiva davanti alle chiese sospirando, osservava le formiche: sembrava una creatura perfettamente integrata col circostante. Eppure la mia sensibilità mi spingeva ben oltre quella bellezza scura. Sentivo affacciarsi in questi una tale malinconia, come una clessidra di parole non dette, ogni notte rovesciata, sentivo nell'espressione di pochi attimi l'incantesimo di quel che intorno io solo non avevo saputo vedere. Lo sorpresi incontinente lasciarsi andare sull'edera, come se quell'atto gli fosse dovuto con solennità, come se il mondo fuori si dovesse voltare. E io no, io mi sforzai di attenderlo, dietro, alle sue spalle, lasciando che la terra accogliesse il fisiologico e attendendo che a me fosse dato il resto. Sentivo che si rispecchiava in lui il dolore della natura, la malinconia dei rami, l'allegria del verde intorno e la disperazione dei lupi. Alzata la lampo si voltò in lacrime. L'urina, il gesto della liberazione fu per egli abbandono e fu lacrime. Sgranai gli occhi e ridissi a me stesso mentendo: "Mi seducevano solo le biblioteche e i bordelli". Invero l'armonia mi sedusse.

domenica 12 agosto 2012

L'uomo e il mollusco (pensieri indigesti)


Vieni qui. Sarà l'unica volta che potrò dirtelo. Contati i passi che ti sono rimasti in tasca, e datti un motivo per       rovistare nell'immondizia di un passato che l'umido rifiuta. C'è un cuore di troppo, una lacrima che si gela fra le scogliere del mio Cilento, un uomo nero, l'altro che per sentirsi mollusco costruisce castelli con le gambe. Sai, amore, cosa mi farebbe più male al cuore?
Dimmi, cosa sarebbe che ti fa.
Saresti tu, la ragione ultima e perciò quella che per prima potrebbe scivolarmi, l'involucro dei miei pensieri, la tenerezza di un castigo autografato, l'attimo in cui ti sognai e volli morire, morire d'amore, perché d'amore non si muore, lo dicono i musicanti. Ma amore, leccami via l'argilla, abbraccia i miei silenzi, calpestami il cuore duro, piangi all'urto di questi anni zero, di questi amici crudeli, di questo crescere e correre che mi fa stancare. Amore, sai cosa mi farebbe più male al cuore?
Dimmi, cosa farebbe che ti è.
Saresti tu, i miei costanti mal di mondo lontani da te, l'esercizio alla penna solo per un attimo di vana gloria, un esercizio senza stile, amore mio, mi farebbe crollare le pupille, rimandare gli amplessi per un valore estetico. Amore, mi farebbe paura invocare questa parola ormai vuota, e dimenticare che io ti vedevo anche nei giornali, nelle edizioni scadenti, nel suicidio di Pavese, nelle lacrime così poco letterarie dell'amico Calvino, nelle incertezze di Pasolini, nel rifiuto di dirsi grande di Warhol. La paura sarebbe ciò che costruiscono i miei occhi alla vista di un derviscio che ha occhi solo per le sue danze, per gli altri.
Sai, amore, cosa mi ferirebbe di più al cuore?
Dimmi, cosa ferirebbe il tuo è, che ti fa il cuore, dimmi, amore.
Amore, è questo gioco che parte da te e continua a chiamarsi amore. Questo gioco linguistico inafferrabile, la lingua che chiede sempre amore, e che in ogni lingua resta un morso che l'uomo sputa a ogni sorso, quando amore non conosce, e che dona a ogni spalla, quando amore sente.
Dimmi amore - chiese amore -, cos'è che più di tutto ti ridarebbe il cuore?
Saresti tu, amore, l'amore, l'omonimia che non indica identicità, ma solo somiglianza, un gazebo nel quale rinfrescarmi, una scatola da aprire ai miei sessant'anni, la mano dolce che rimpiange il corpo, le inesattezze che ci si sforza di allungare, il tempo che si fatica ad amare, la meraviglia che il mondo intorno dimentica. Saresti tu, amore: l'amore. Una civetta che fissa la luce di una camera, una vita, una camera, il silenzio.


Ieri perdevo il mio cuore oggi lo ritrovo e me lo tengo stretto, stretto, stretto fra i denti e i camici delle infermiere, quelle belle, mamme nelle piccole cosce di rame, donne nelle mani che han toccato i corpi indigesti di vita. Quel che un giorno gli uomini chiamavano gioia oggi si chiama silenzio. La diva del muto l'ho ritrovata al mare, oggi, proprio oggi, in mezzo alle alghe e alla calura, in mezzo.

L'aria intorno entra ed esce dalle corde della mia armonia. Si spalancano bocche al mio capezzale. Si chiamano sorrisi, sto parlando delle fauci.

domenica 5 agosto 2012

La tavola

Sono tranquillo, eppure.

Quel giorno fu il bilancio di tre anni spesi in quella casa enorme, da tenerci tutti dentro, piccola, da sentirci tutti addosso all'altro. Raccontai ai miei figli di un'emozione da bar facendola passare per emozione da sala da ballo.

Lei arrivò comunque tardi, e gente in giacca e cravatta urlava il suo nome, mentre per lei, stranamente, apparve più importante il bilancio degli anni che quel momento. Visi noti le sembrarono maschere, maschere, maschere. Entrò d'un fiato, col cuore nelle maniche, sorrise al tavolo lungo di legno, agli uomini affollati sul tavolo e cominciò la sua arringa. Ogni faccia fu più umana che mai, mai ai suoi occhi le parve tutto più inaspettato. Quando tornò a sedere si guardò intorno, di proposito. Ecco, questo è il momento di rapire ogni cosa. Intorno a sé, dietro di sé, davanti a sé: uno rideva, un altro si agitava, un altro ancora osservava, ancora un altro sbigottiva, uno fra gli altri agitava le braccia per farsi vedere, un altro si nascondeva sotto le formalità. Gli uomini affollati su quel tavolo lungo restarono a fissarla per un po': la figlia di Narciso la fissò incredula e sottecchi fece un cenno di approvazione, il pendolare stanco blu la fissò a lungo e prima le porse un sorriso e un occhio strizzato, e dopo, un sorriso. Il sud le sorrise in fretta, l'Inghilterra sorrise sotto le labbra, la geografia fissava senza capire da che regione arrivasse. Ma il suo posto, lo notarono in molti, fu su quella sedia, a tener la mano stretta all'Africa. Nessun momento fu mai tanto pesato. Le persone si accalcarono per gli abbracci, la selezione naturale si propose imprevedibile: gli inaspettati furono i migliori, i primi giorni di scuola marcirono nel tempo d'un giudizio, le donzelle e gli sguardi inutili furono ricacciati dall'organismo, fisiologicamente. L'uomo grosso, buono negli occhi e folto nella barba le porse i fiori più belli del mondo. Il disprezzo, quello arrivò in anticipo, ma si presentò dopo. Sorrise, pure, nella speranza di un'ultima briciola e invece, non servì. Durante i festeggiamenti qualcosa di meno festoso s'insinuò nei suoi pensieri: le correvano in mente tutti gli anni trascorsi, le occasioni perdute per un paio di sigarette, il cadavere dei ricordi da seppellire.

Ora che il cadavere è stato seppellito, i ricordi piano piano si collocano nei propri spazi, ogni cosa assume il suo "è" nel tempo e nello spazio, i visi belli restano pochi, gli stessi; ora che è stato buttato un quintale di pesantezza, è tempo di sorridere. Respirare. Ora è tempo di elenchi.

Via alla false recidività, alle scadenze matematiche in questioni irrazionali, al bello al brutto e al cattivo, a mio marito mai voluto, alla caccia alle streghe in cui fu bruciata al rogo sua madre. Ai momenti che non avevo promesso di vivere e che sono arrivati puntuali, alle bandiere bianche sventolate ogni volta, alla ciclicità che verrà in forme nuove, alla resistenza che si rinnova sempre, a tutto quello che gli uomini avranno e che perderanno. Io brindo.

domenica 1 luglio 2012

Questione di brevità

A percepire il mondo ci si sente vivi. Certo.
Ad avere mill'occhi, una lingua a stento, dodici paia di orecchi, sei satelliti, si rischia di perdere il conto. Facile.
Ad arricchire i desideri, a connotare la realtà di vortici surreali si perdono gli amici in battaglia. Ai caduti in guerra.
A raccogliere le stelle, a stringere le lucciole, a inserire l'euro per un'ora di libertà del carrello, ci si sente genitori. Riduttivo.
Alle sere volutamente trascorse nei singhiozzi, ai risparmi nelle tasche vuote, alle risse mai divise, ai camaleonti che sono ovunque, alla cerchia di amici che cambierà a ogni ostacolo. Fisiologico.
Alle persone che ho perso e a quelle che restano comunque. Questa è la selezione. Amen.



sabato 23 giugno 2012

tuo, Roland

Le mani in tasca, ritmo lento, quasi dondolante accompagna pensieri e giovani voglie. Ammettere un cambiamento è eccitante, ma non facile.
Ho posato lo sguardo su una scena alla cannella: troppo dolce bruciava gli occhi, ometteva troppa realtà. Attraverso il bosco, nuove solitudini. Il sentiero divenne ostile appena fu buio, conoscevo quel percorso, non avrei potuto avere difficoltà. sai, amico, la problematicità è una parvenza, in effetti non esiste. Ho colto fiori, rami secchi e foglie, le ho lasciate rinsecchire in un posto sicuro.

Ti scrivo poche righe per un evento da comunicare. stop. La differenza fra esprimere e comunicare, sai. stop.
Funerali del passato, via Morto ai paesi, 3.stop Deceduto durante una passeggiata, dicono infarto. stop. Ho scoperto il suo testamento, del passato, intendo. stop. Non posso parlartene per telegramma, anche se lo farò comunque. stop. Io non ho visto il cadavere, l'ho trovato per strada, una donna dall'aria stravolta mi ha strattonato e mi ha urlato contro è morto il passato, è morto il passato, calpestato ucciso. stop. Eri vestito di corallo l'ultima volta che ti ho visto. stop. Ora ti immagino di nero e di bianco. stop. Dai un occhio alla Grecia. stop. Attento al carovita, ai semafori, agli sconosciuti. stop. Ricorda sempre che paesaggio e realtà non hanno nulla in comune, ricorda. stop. Non chiedermi l'indirizzo del posto dove andrò. stop. Ti lascio con un interrogativo. stop. Abituati al caldo e al freddo della luna. stop. Ama la solitudine e non circondarti di troppe parole vuote. stop. Abbi cura del sé. stop. 
Cosa sceglieresti del tempo: draghi e sirene o camaleonti e salici? stop.
                                                                                           

giovedì 14 giugno 2012

Ultima fermata

Cinque donne mi invitarono a entrare. Esitai. Poi entrai.

Oggi ragiono sui silenzi, sulle clessidre in frantumi e gli scontrini che si dichiarano sempre meno di quel che sono. E mentre scopro a fatica il velo, mentre guardo con amarezza il mare, ho tutta la sabbia negli occhi. Il sole è in cima alle cimase, ma poco importa, per me è notte fonda. Il nord Europa mi fa paura, non ci metterò mai piede. Mento. Sono a piedi nudi, quattro grattacieli sono crollati alle mie spalle, il medico mi rincorre mentre scappo dall'ospedale: questi ha bisturi e punti, gli occhi sono spiritati, i denti così splendenti. Il sindaco mi ha parlato di un nuovo comune che stanno edificando alle spalle del mio, dietro, dove si trovano pure le verità, lo chiameranno il comune dei diseredati. Faccio di no col capo: non è un bel nome, non è. Ho chiesto a Stravinsky di starmi accanto, ho chiesto a van Gogh perché tanta sofferenza ai piedi d'un campo di girasoli, ho chiesto al cielo di piovere di meno, ho chiesto all'abisso e mi ha risucchiato, ho chiesto all'abisso e mi ha ricacciato. Mai più mediocri sere a frantumarsi il cordone, mai più a contarsi le monete in tasca, a stringersi come la notte, a colmare il vuoto di una provincia di sentimenti, non sento niente, non c'è niente. Così mi ridesto dal sogno, bevo un po' d'acqua, è salata. Indosso le scarpe e scalza mi chiudo la porta di casa alle spalle. Che cosa lascio, che cosa trovo, quante nuove occasioni; sempre le stesse. Ho visto Zingaro Incoronato, fra gli spasimi e le lettere, l'ho visto annerire gli spazi bianchi d'inchiostro e di vino, spazzolare le rime del mare e mettere in salvo gli animali dagli uomini. Mi ha riconosciuta, come tutte le mattine, mi ha guardata come a dire tu che fai qui. Non ho detto nulla, non ti posso toccare, ma vorrei che dicessi. Con lo sguardo mi ha fatto cenno di sì, poi ha aggiunto che non può. E' meglio non sapere. Resta la clorofilla da leccare, verde vitale, restano le corde delle chitarre da spezzare, un orologio profumato in camera da conservare, un pacco pieno di lettere da leggere ancora, quell'occhio da mordere, e quel sacco di sogni che devo andare a riprendere.
Finisce così, senza un senso, nemmeno uno. Si articola su spazi immensi la possibilità. Cancello le immagini, cancello i ricordi, la memoria è troppo carica. Basterebbe, se ci fosse, un pulsante, delete, una fiamma, uno schiaffo, una stretta per sentire che si è vivi. E com'è triste morire da vivi e da giovani. Werther fece moda a suo tempo, perché era facile vivere d'un fiato e morire per vanità. Oggi Werther dove sarebbe?
Ero in mezzo ai popoli, agli autoctoni, al folklore, agli stranieri. La luna era piena, e maledetta, che mi fa andare fuori controllo. Ho detto troppo, la bocca è secca. sens-

venerdì 8 giugno 2012

Graffiti

scrivo.
Ma senza usare carta e inchiostro, si graffia lo stesso?
E poi, chi dice che scrivere valga a qualcosa?
Di ogni cosa il suo contrario.

domenica 3 giugno 2012

Meditocrità domenicale come fra gli scaffali della Feltrinelli in fiamme

Le strade che portano alla montagna, sentieri e calate indigeste, quel signore alla sua finestra sul mare, i sordi i muti e i ciechi a dirigere le orchestre. Le abitazioni di città e quelle dei quartieri poi, hanno un grigio diverso, come a dire la storia di quest'asfalto è mia, gira l'angolo nulla è come è qui. Identificarsi attraverso i colori, la forma dei balconi, le scelte delle tende, ma in realtà al sesto piano ci abita una sola famiglia. Oggi ci abita un solo familiare, che poi non avere più parenti significherebbe essere orfano, e non più familiare, quindi essere uno. Nella mia cittadina non ci sono costruzioni alte come in quel quartiere, quelle sono alte come i fari. D'altronde è sempre un quartiere di mare, la mia, cittadina a parte. La geografia ha sempre spiegato ogni cosa: l'economia, la  consistenza fisica degli uomini che abitano certi luoghi, la letteratura, le strategie storiche, le svolte segrete, le manie di grandezza, piccolezza, accerchiamento e ancora...




Passando per la testa
                                                                             
  . incredulità          , sedia, seno, garage, nero, tensione muscolare da vita sedentaria, pacchetto merito, eroi in costruzione fuori al discount, la letteratura potrebbe innamorarsi della chimica,                                                                       mani in all'erta, un mese e mezzo, foglio bianco, novelle, giornali, titoli dei giornali, trafiletti, leggere le tracce, traffico, mare, gli antenati con i polsi al cielo come i figli degli anni zero, essere attore in un auto-fiction, pensare: fossi stato giovane trenta o cinquanta anni fa avrei vissuto un'altra condizione certo, forse non questa della mobilità incapace, tremare prima che il bus parta, bussare alla porta ma                                                                                            nessuno apre, buoni propositi in tasca, acqua, vino, acquolina alla bocca, napoli, gatti randagi, unità, sessione, faro, occhi, tutti gli occhi guardano la tazzina di caffè in modo diverso, e non c'entra il colore, Willy il coyote, un'occasione, dritti al medioevo, spazzolarsi le rughe,                disfact            , salve, io sono, insoddisfazione al risveglio, occhi chiusi, silenzio è tempo di silenzio, 'Maddalena penitente' mi fece sudare gli occhi in libreria, festeggiare il capodanno mandando affanculo tutti invece che augurargli buon anno, presentarsi nudi a carnevale dicendo agli amici di avere un costume da nudista, al casello quelli si baciavano con le macchine, non mi ricordo più che volevo dire. forse volevo dire che dal momento che la realtà non ha a che fare con la trinità, e dal momento che il linguaggio ci fa comunicare, e dal momento che più realtà creano i sogni, io avverto che io io io non saremo mai una trinità, treno di rime probabilmente, flusso di penitenza, l'incertezza incalza, la noia non trionfa. fermi non si può stare. ma nemmeno sempre ad aspettare.                                                                                                                                Sfreghiamoci gli occhi con le dita.

sabato 2 giugno 2012

Resoconto di un tempo

Un cavaliere la colse da terra, la posò in sella al suo cavallo e senza una parola percorse il bosco. Rinvenne, lei, durante il tragitto, ebbe un attimo di smarrimento, ma guardando di spalle il cavaliere notò che la sua non era una armatura nera, e ne fu rassicurata. Si lasciò percorrere.
Un ragazzo al bordo della strada, poco distante dal semaforo, ragionava su come stendere colore sul muro di fronte. Aveva due bombolette cariche di colori e lasciò via libera al braccio destro. Non vi dico cosa ha realizzato, quando passerete da quelle parti, saprete riconoscerlo.
Un sordo e una cieca si lasciarono andare. Cieca com'era fu colta da stupore toccandosi il ventre gonfio.Si mosse sicura nel buio, ondeggiando in cerca di lui. L'odore ammise subito di appartenere al sordo. Lei, cieca com'era, gli strinse il braccio, glielo portò leggero al ventre, e gli disse di che si trattava. Lui, sordo com'era, non sentì, e lei, cieca com'era, sorpresa com'era, glielo ripeté a voce alta, gridava. Ma lui, sordo com'era, percepiva solo l'agitazione. Il gesto del braccio portato al ventre fu comunque significativo. Seppure lui sorrise, lei non poté vederlo, cieca com'era; seppure lei gli disse parole importanti, lui non poté saperlo, sordo com'era, ignaro  dell'importanza e della parola. State pur certi che la comunicazione riuscì comunque: era così ovvio, da un ventre sordo e cieco sarebbe venuto al mondo un muto. Si lasciarono al silenzio.

giovedì 24 maggio 2012

Riposto o Titolo di un post

MAIUSCOLO poi minuscolo termina una parola ne inizia un'altra punteggiatura a tenere il tempo virgola punto due punti e punto e virgola digito punto. punto frase composta da parole sintagmi sillogismi e entusiasmi rime in versi o versi in rima. gitane in sottana capelli intrecciati, ossi di seppia. punto. Un grido di gioia, il movimento nella struttura. l'uomo in rivolta, non era Camus, anche se il suo nome iniziava per c, non era camus, ma nemmeno uomo. punto. Era rivolta. punto. 
minuscolo poi MAIUSCOLO, la scrittura non ammette linearità, e se ci entri non ammette uscite di sicurezza. Abbi rispetto merlo, abbi rispetto e costringi il petto, abbi rispetto perché ciò che uno scrive non sarà mai suo, ecco il rispetto. punto.

lunedì 14 maggio 2012

Dammi riva

Erano tre le cose che desideravo guardando dalla riva il faro:
arrivare a nuoto al faro e restarci una notte
conoscermi ogni giorno
nuotare .
E il faro mi disse: -non blateri, sei-.

martedì 1 maggio 2012

Sinonimi e Contrari

Sotto un sole che si accende e si spegne, fatto di cera e creta c'eravamo tutti. Sotto quel sole che ogni giorno  si modellava su nuove forme di vita di morte o di sogni non v'era importanza; il sole si modellava. Proprio perché non v'era importanza io aprii le gambe in una distesa di verde, l'aria era dolce e passava nel mezzo, nel triangolo rovesciato con i lati che convergevano nell'intimità. I sogni si prendevano gioco di me balbuziente, di me anziana, di me gravida, di me in processione. La realtà divenne un angolo soffuso in riva al mare, oppure una carta stropicciata sulla scrivania, ma la luce soffusa c'era sempre a caratterizzare la realtà.Quando chiusi le gambe svanirono i sogni, svanirono i tempi, svanirono le illusioni. Seppi che un uomo ammazzò il suo corpo perché non aveva un lavoro. Seppi che la più bella della classe al liceo vendette il suo corpo perché non sapeva più che farsene. "Se continuiamo a considerare il banale troppo banale, anche ciò che non lo è finirà con l'esserlo", disse il prete durante la messa all'area camper in curva. Camminavo a passo lento, io intanto, non m'importava dove andare, non m'importava chi incontrare, i polmoni erano preda dell'aria dolce, tutto il mio corpo era sua preda: i muscoli, le narici, gli occhi, la bocca, la lingua... l'importante era essere e andare sempre coniugati all'infinito. Di fatti così proseguì la passeggiata: essere andare essere andare essere andare essere andare essere andare. Ma d' improvviso sentii chiamarmi, mi girai distratta, guardandomi intorno, ma non capivo chi mi avesse chiamato; non vedevo alcuno. Dunque, continuai dalla mia parte con le spalle alla voce, che riprese a chiamarmi. Meno distratta e più pronta mi girai di nuovo. C'era qualcuno, sembrava una donna, non troppo alta, scarpe colorate, castana, sorridente e braccio agitato in un saluto ostinato. Restai ferma a cercare di capire di chi fosse quel corpo che non credevo sconosciuto, ma quello avanzava e più avanzava e più lo riconoscevo e più lo riconoscevo e più ero io.

martedì 24 aprile 2012

Il gioco delle parti


Da grande dicevo: scrivere è una movenza artificiale. Ora che sono piccola mi dico: scrivere è una movenza artificiale. Gli altri, estremo riflesso di me stessa, non fanno che domandarmi: "E cos’è che è cambiato, quindi?"
E io, arrossendo, col naso all’ ingiù dico loro che non è cambiato nulla, certo. Ciò che ieri pensavo oggi lo dico. E vi pare che non sia cambiato nulla?
Quando da grandi si diventa piccoli occorre una necessità, in molti taciuta o rifiutata, che è la consapevolezza. Quando la percezione diventa intuizione e l’intuizione diventa pensiero e il pensiero trova equilibrio col peso del corpo, allora la consapevolezza è alle porte; anzi è entrata.  Si è piccoli davvero. La piccolezza è infatti consapevolezza, o peggio, coscienza del sé.
Da grande sognavo di diventare, in quest’ordine: suora, attrice,  giornalista sulla tazza… e oggi non so più chi essere. Ecco: si è piccoli. Quando parlo con qualcuno, qualcuno che mi è vicino, qualcuno che mi è lontano, non avverto  la svolta di un pensiero ma ne riconosco l’autenticità (ognuno è autentico perché è manifestazione di se stesso, e allo stesso tempo e modo, tanto per citare il titolo di un libro non letto, ma solo sfogliato e modificato “chiunque può essere chiunque” per lo stesso principio). Se ognuno di noi, in fondo (e se dico in fondo riconosco il fondo e lo tocco) sa di essere autentico, allora può avvertire di essere chiunque. Ecco allora che l’umanità si fa abbraccio e abbraccia ogni cosa e si fa collettiva, un bene comune; nasce il delirio dentro ciascuno di noi. La scrittura esemplifica tutto questo ‘mio-tuo-suo- nostro-vostro-loro’.  Scrivere non è mai stato più difficile, una movenza artificiale, e per fortuna che a noi resta la scrittura. Resta perché resiste al di sotto di tutto: resiste. Resiste nel caos del piccolo uomo, resiste  nelle fragilità del piccolo uomo, resiste e basta. Ma c'è bisogno che le sia assegnato uno spazio? Da qualche parte, in modo patetico avrò detto che la scrittura si salvi e resista perché dicotomica è la sua natura, evolutiva e involutiva; essa è uno slancio fra il vuoto di un precipizio e il vuoto di un salto su un materasso senza reti. La scrittura accoglie tutto nella sua natura artificiale, nella sua spinta alla sensibilità, anzi ridico umanità. Rivive negli anni, splende e si spegne. Le mani di coloro che scrivono hanno  una responsabilità enorme nei confronti di chiunque e dunque di loro stessi, nei confronti della scrittura e dunque della democrazia, nei confronti del mondo e dunque dell’ecologia, nei confronti del progresso e dunque della tecnologia, nei confronti di loro stessi e dunque dell’umanità. L’egoismo non ha una natura negativa, non ce l’ha per natura. Perché se uno sente una necessità, un’esigenza è per egoismo, sì, ma pensateci: quanto bene può fare a un altro raccontare questo slancio o caduta dell’ego?
Che la scrittura si salvi, fugga se domani la vorranno truccare, ingioiellare per essere messa in vetrina. Si esprima, si apra, si mostri, si faccia piccola se nasce da una consapevolezza.

domenica 15 aprile 2012

viaggiatore universale

Un tizio mi raccontava barzellette al bar della stazione e io ridevo non per il contenuto ma per le facce che si divertiva a mostrarmi senza saperlo. Ridevo, uh, come ridevo! Il gioco del riso è unico e incontrastabile: è un riso amaro, o amaro riso, stanne certo. E fa ridere anche quello. Terminate le sue quattro o cinque barzellette andò via. Disse di chiamarsi Giggi, "con due 'g' ", tenne a precisare. Mi strinse forte la mano nel dirmi arrivederci e lì capii che era un uomo e basta, forse buono. Chissà, pensavo, da bimbo sognava già di intrattenere gente alla stazione raccontando barzellette e sognava già di essere un pompiere tanto simpatico e rassicurante, con tutte quelle 'g' che si porta dietro? In autobus, invece, scoprii facce nuove tutte strapazzate convinte di niente e vagabonde, con una disperata voglia di restar meno sole e gli occhi, se li avessi visti, glieli avresti chiusi. Io riscaldavo uno dei sedili ultimi, però che sporgeva sul mondo, sui discorsi, sulle facce e sulla pioggia. Pensavo al mio amore, a qualcosa da fare, alle mani, agli amici, alle amicizie, alla musica quella che si dona come un segreto e invece poi scopri che in giro la conoscono tutti a partire dal tuo segreto. Abbi pazienza, quanto mi divertiva dirlo ai clienti del fast food, "abbi pazienza, c'è un po' di confusione, tra un attimo sarò lì". Ripetevo sempre questa frase, così pareva che il cliente aspettasse con una pazienza meno nevrotica, quasi comprensiva; in fin dei conti comprendere non serve a molto. L'aver compreso mi ha sempre reso le cose più difficili. Se piove da due giorni senza sosta su questo tetto è perché non c'è vento a portarsela via, la pioggia. Il che vuol dire che non si respira e il fatto che oggi mi manchi il respiro è comprensibile. Ecco, l'ho detto, comprensibile, ecco l'ha fatto; ha compreso. Quando ritorno a casa, non sotto questo tetto, ma fra le braccia sue, la  marea mi bagna sempre un po' i piedi. Ma se mi tiene forte, che la presa non la molla, che la pelle come l'acqua è trasparente, allora resto di più e forse comincio anche ad arredarla, questa casa. Poveri adulti, spesso mi dico. Cresciuti per caso, a farsi strada fra ragnatele e erbacce, a fare i ruoli, a decidere per altri, a fare i grandi senza averlo chiesto. Io bimbo non ci resto, grande non ci divento.
Sancho Panza e io siamo amici da molto tempo, ma oggi piove, il tempo è passato e forse dovremmo smettere di vederci al solito posto e di giocare a acchiapparello. Sognare stanca.

giovedì 12 aprile 2012

O oso O doso

Nell'antica Grecia ai piedi di una lingua di roccia un tempo s'affacciava pensoso Krino che ebbe una crisi, che prese a confondere e a separare. Dimorò in lui, come molti dissero, 'un subitaneo cangiamento', ma dentro di lui gli eventi non furono così ben definiti. Krino non si voltò mai da quel paesaggio, non ci fu un solo momento della sua crisi nel quale diede le spalle all'immenso paesaggio, riflesso del suo stato d'animo. Dopo di lui ci fu il frate di Pasolini, che per un anno intero restò lì, in ginocchio con i rampicanti a ingarbugliargli l'anima. Ma questo accadde molti secoli dopo e soprattutto il frate non aveva alcun dubbio; ecco perché suscitava anche un amaro riso. Krino visse per sé e per gli altri in uno stato di febbricitanti passioni, di mesti dubbi e di enormi pensieri. Dalla sua esperienza nacque la crisi. Per alcuni fu malattia, per altri rinascita, per i peggiori uno stato perenne. La crisi invase gli spazi, occupò paesi interi in certi periodi, rovinò e aggiustò un groviglio di umanità con una invasività tale che fermarla o anche solo percepirla in anticipo fu impossibile. 
Io, io qualunque, Krino me lo vedo dappertutto: conquista gli spazi, sporca i pavimenti, saltella sui miei passi. Da quando ha voltato le spalle alla lingua della Grecia è leggero, dice, ma io non gli credo. Io qualunque non gli credo. Quando sentii parlare la fanciulla al professore lei disse che la crisi è bella, e chi se ne vuole uscire più dalla crisi, io ci sto bene in crisi. Disse proprio così. E lui la guardò sorridendo, come a dire come sei fanciulla, tu. Devi farti scoprire tu. 
Vedete, la crisi accarezza ogni cosa fino a giungere al paradosso se non se ne esce, vivi o morti. Infatti il professore quel giorno le disse che era diventata una donna, ma quando ella parlò sentì ardere ancora il fuoco della fanciullezza. E non la disprezzò.


Krino diceva sempre: meglio un delirio quotidiano che precipitare sempre. 

sabato 7 aprile 2012

A letto con una notte


I passanti e i pensieri e i pensieri passanti.

A : Ho questa foto,  cornice delle azioni malandate. Ho perso i figli dei miei desideri parlando alla città. Non ricordo più quand’è stata l’ultima volta di pura gioia. Vivo in ballo imballata. Voglio camminare dritto e stare bene con quello che c’è. E di parlare, mi va.

β : Un gregge di gente che alza l’indice per dire , ‘sì, anch’io’, e sarebbe bello se le lezioni s’affollassero di dita all’aria.

Γ : Digrigno i denti pensando a Ungaretti, arrossisco e m’innamoro se penso a Campana, muoio se penso a lui, così distante dagli anni miei, così vicino nell’ irrealtà che ha l’odore del letame. Cito controvoglia, sbadiglio al barista, un caffè, si capisce. Assecondo la pazzia, la pecora nera non si riconosce più tra il gregge e allora ogni pecora è pazza. Al centro commerciale si può fingere d’essere chi vuoi, innanzitutto sei chiunque.        Le scale salgono e scendono, mobili loro immobili noi. Alcuni bimbi chiusi in una bolla di plastica galleggiano spensierati sull’acqua. Tutto questo non ha senso. 

Δ: Siamo quegli stupidi che s’inventano il futuro, come a giocare con la colla e i cartoncini, se lo costruiscono a poco a poco, altrimenti senza immaginazione si soccombe. Siamo le ragazze del quartiere che mangiano pietre per dimostrare di essere forti. Siamo quelli che con la tristezza ci vanno a letto e alla felicità danno buca.

E : Un tempo mi fustigavo per la morale e rincorrevo il buoncostume per non uscire mai fuori dai ‘potrei’. Amavo l’ombra della fertilità estiva e mai mi concedevo a slanci mentali febbrili. Non che oggi tutto questo sia stato rimosso, almeno in parte. Ma l’esercizio alla vita ripaga e ripiega su se stesso sempre, e ammetto sempre in relazione all’altro. Ho tratto giovamento dalle relazioni con l’altrui gabbie e ripensando all’Alfieri, probabilmente, anche in una mia possibile ‘epoca prima’ ci sarà stato un episodio simile a quello della reticella. Allungo gli occhi un po’ più in là. Lo faccio volentieri; a immaginarmi in erba, oggi in fiore, a consumare il tempo e gli occhi, a mangiare ancora mani, a desiderare, e senza dubbio a sentirmi la voce. Abito in via delle possibilità, ogni vicolo è percorribile nulla è  scartabile. Le relazioni si fanno meno morbose, ma si riconoscono e pretendono la paternità.  Settembre arriverà. A dicembre, invece, c’è la raccolta dei sassi.

Z : Crudeli e fischiettanti se ne vanno in giro per il mondo. Nessuna gioia, alcuna gioia; nient’altro che una smania infinita e cagnà, stando fermi. Ho deciso di tuffarmi e lo feci: com’è profondo il mare, esclamai con meraviglia celata al mondo e rimasi a guardare il profondo mare. Sono in mezzo al mare, se affanno le braccia fra l’acqua mi sento, sento la pesantezza del mio corpo leggero nel mare,  c’è. Una folla di gente decide d’accalcarsi, programma della serata: scegliersi uno spazio, un posto da abitare nella rete, poi ci prenderanno. Tutti a casa, tutti lì quasi nella rete. Tutti muti, nella rete, tutti, sorridevano tutti, tutti sorridevano muti. Così.

N : Una medusa si avvicina avvolta nella sua bellezza: elegante, morbida, lucente. Lo sguardo di lui la segue intimorito e già innamorato. Nella morsa della bellezza tutti vogliono morire, nessuno escluso. La bellezza salverà il mondo, qualcuno lo ha urlato tra i titoli in libreria. Che cos’è la bellezza se non un vuoto nel quale precipitare, il tempo che serve perché appassisca consumata tra ingordigie e carità trovata fra carruggi e asfalti con mill’occhi. Cos’è che ti trascina ogni notte ai piedi della mia porta, che ti fa amare la bellezza, bella com’è t’avvolge e in un patio andaluso giurerai di averla vista. La vedrai altre mille volte, altre mille v o l t e, mille volte a l t r e. Sì, mi diverte. Ogni angolo del tuo viso mi diverte, perché è uguale al mio. Sì mi diverte costringere la fantasia in storie prevedibili. Sì, mi piace non conoscere altra gente, ma avere sempre la stessa che vive da secoli su quella panchina. Sì, mi diverte tornare sulle stesse parole e sugli stessi rimandi. Sì, non mi diverte affatto stare in mezzo a tanta gente, avere trentasette orecchi e due virgola cinque bocche, quattordici occhi e fingere di non aver visto nulla. Ogni volta, mi diverte.

Θ :  Se incontrassi tutti loro al supermarket il carrello correrebbe in avanti, li urterebbe e troverei qualche scusa per annusarli, carezzargli ‘occhi e rimpiangere la mia credulità. Balla con me fino alla fine dell’amore, che senso ha, ma sì, balla con me. Che la scrittura si salvi, che l’inchiostro ci macchi tutta la bocca, che la scrittura si conceda a tutti, che si rifugi dai pochi, che si salvi la scrittura, perché stanotte la voglio liberare. Ti immagino sai, scrittura, fra la collottola di vecchi uomini ingialliti, fra le primavere dei giovani ormoni, fra le cravatte dei giovani devoti, fra le calze smagliate delle mogli e i calzini ripiegati degli uomini, fra le occasioni perdute di chi vive solo. Tu scrittura, salvati. Se ti salvi tu, scommetterò sui destini della gente, ti terrò viva in fuga, fuggi da me se vuoi.  

mercoledì 28 marzo 2012

Corpo di plastica


C’è nell’uomo una paura disarmante: restare nudi. Per nudità io intendo senza vestiti, nudi, senza nemmeno i calzini che formicolano le caviglie, nudi, senza nemmeno un angolo dove rintanarsi, nudi intendo con la pelle al vento, con le intimità e le personalità rese note al di fuori. È una pratica tanto primitiva quanto sconvolgente, capisci, restare nudi? E se poi quello mi fissa, resta lì a guardare il mio pube, le cavità e le rotondità lunari? No, non resisto..
Resiste, ancora un po’. È la mia preda da tempo e comincia a cedere. È mia. Nella mia carriera ho visto crollare molti corpi, pelli e carni, scene d’orgia  senza erotismo, solo corpi precipitare a picco sul mondo. Gli esercizi di nudità non hanno mai fatto male, soprattutto quando vi partecipano corpi giovani, freschi. Solo quando si è davvero in fiore la pelle odora come un petalo. Io sentivo quell’odore colmare le narici, immaginavo la peluria nelle narici muoversi, ondulare, trattenersi nell’inspirare e godersi quell’esalazione delicata fino al cervello, poi giù fin nelle profondità.  Sfioravo ogni corpo, mangiavo e mordevo la carne. Non esisteva miglior lavoro al mondo. Fotografare corpi nudi. Dieci anni di corpi nudi, completamente. Una flagellazione del corpo senza sosta. Gli altri mi elogiavano dicendomi che il nudo viveva attraverso quelle foto, che si riusciva a sentire il peso dello stare al mondo, fisicamente intendevano. Io annuivo e ringraziavo. Come spiegare a quelli che avvertivo un vuoto enorme ogni volta che facevo click con l’indice sul pulsante dell’immortalità? Vedevo attraverso la macchina fotografica quei corpi belli solo nell’odore, forti nell’aspirazione alla non-materia, bellissimi nell’idea del viaggio, nel volersi abbandonare. Tristi e orribili per me, nel restare fermi immobili, incompiuti e inconsapevoli. Cambia posizione, guardami, ruota il capo, avanza, spalanca la bocca, ammicca un sorriso; i pantaloni mi si gonfiavano, le pupille biglie nere. L’odore, il giardino, la serra, i fiori, i petali, profumo.

lunedì 26 marzo 2012

Ricordo di un'ombra


Dicevo all’amico Tom che le ombre non appartengono ai corpi. Sorrise Tom, sorrise a lungo nel suo viso di plastica e canditi. Io continuai a discorrere senza avvedermi della mia incompletezza e della mia ridicolezza. Tornai a casa stanco e sfatto, calciando i sassi che incontravo sulla strada. Un gatto, un’aiuola, nuvole in fuga, luna piena, due rughe all’occhiello e quattro mani e un braccio di cui non ho mai saputo che fare. Pensavo, pensavo all’amarezza che Velcaninov avrà di certo provato nel rendere il conto di quegli anni trascorsi a T.; pensavo a Velcaninov e alla piccola Lisa, la figlia morta, conosciuta per un momento in una stanza d’albergo e poi immaginata. L’ipocondria, spazi immensi, riprenditi. Un mio amico una volta mi parlò di una figlia che credeva sua e che perciò cominciò ad amare, a cullare, a pagare. Poi la piccola morì precocemente e il giorno del funerale seppe che non era figlia sua. Cominciò a disperarsi. Pianse a lungo sulla tomba piccola e nivea, mi raccontò. Quando la stanchezza scivolò dal collo della luna, l’amico alzò la testa e si sorprese nel vedere che fosse già sera. Si spaventò nel vedere la sua ombra che di fianco gli stava in una posa diversa e non riflessa, in piedi, davanti lo fissava.  Si contorceva la tomba di una niňa sconosciuta; il lavoro perso come l’amore facile,  gli occhi sbiaditi e l’ombra che ancora dinanzi restava. Gli chiese chi fosse, ma quella non rispose, niente affatto. La urtò, la spinse e quella niente, poi incalzò vento e se la portò via. Non dormì, non tornò a casa. Bussò alla mia porta, entrò si versò da bere e cominciò a raccontarmi quanto ho ricordato. Risposi che avrebbe dovuto riposare e respirare calmo, fumare una sigaretta e coricorarsi, lì sul letto. Allucinazioni, amico, il dolore fa brutti scherzi. Ma oggi ripenso con stizza alla mia sete di risposte inutili. Oggi capisco: quell’ ombra non era che la sua che lo ammoniva senza giudicare.Sì, le ombre si staccano dagli uomini in preda al panico che s’aggrappano a un’altra vita, l'afferrano con l'uncino, rincorrendola, la vita d’un altro. E dunque, l’ombra si stacca silenziosa, stanca e attonita. Poi spalanca le piccolezze dell' umanità al suo uomo e si lascia soffiare dal vento non potendo più riflettere chi brama l'altrui vite e non gioca più con la sua ombra, con la sua niňa.

domenica 4 marzo 2012

Bell'are


Muore una pecora, sotto gli occhi miei. Muore che io non posso toccarla, è malata dicono, è nera. La fisso finché gli occhi stanchi me li trovo tra le mani. Metto a posto gli occhi e vado via. Ripenso con agitazione alla pecora nera con la lingua di fuori, i denti con un po’ di verde fra le gengive. E m’assale un senso di solitudine. Pensiero secondo: la solitudine, appunto. Mi fa sorridere pensare alla solitudine, è semplice, è sussurrabile. Non avere paura che sarai solo anche tu prima o poi. Ma solitudine è compagna, tu non spaventartene. Solitudine è piacere, tu goditela. Tra le ore sole corpo e anima saranno vicini e potrai toccarli. Se un colpo alla gola senti lascialo lì, cadrà da solo, come i denti dei bambini. Non tirarglieli. Se sceglierai la solitudine, non ci saranno scorciatoie, la lingua s’ammutolirà per un po’, ma il gusto della compagnia non avrà eguali. Ci sono persone che s’adagiano leggeri sul mondo e non te lo dicono e non li vedrai mai. Ci sono tipi di persone: gli “eterni mariti", i mentecatti, le suore gravide, gli avari senza averi, gli sbandati, i tormentati sempre e gli appassiti cronici. Ci sono tanti tipi di persone quanti tipi di malattie e tante realtà quante persone. Tanti giorni quanti il calendario segna e ogni giorno un santo, per crearsi un pretesto, per osannare i giorni. "Noi siamo l'uno per l'altro un teatro sufficientemente grande"                                                                    .

mercoledì 29 febbraio 2012

Le pareti d'agosto


E troppi corpi ancora non si fermano.

La vidi passare, a un piede una scarpa, all’altro un calzino sudicio. Il sole picchiava forte sulla testa calva e lucida del capotreno che tolse in un attimo quel buffo cappello e si fregò la mano sulla testa più lucida che mai, sudata. Non potei fare a meno di arrampicare un sorriso. Lei intanto ancora che urtava i passanti ingombranti, ancora che zoppicava a un piede, quello scalzo, perché l’asfalto scottava. Scoppiai a ridere, elementare watson. Alle elementari ci andavo a piedi, con zaino in spalla e fratello davanti, la salita e la responsabilità di se stessi che ti faceva sentire Grande, macchè, se la rideva il pasticciere. In treno scavai più che potei, elemosinai sguardi, assetato come ero, insaziabile, avrei voluto strapparli gli occhi, assaggiarle le carni, ma il caldo, i fiati di tutti quasi asmatici, mi fecero sentire un traboccante senso di vomito. Come ogni giorno, d’altronde. Vorrei fare chiarezza sul senso mio di nausea. Non sono mai stato un uomo che da bambino vomitava  di frequente, salvo casi febbricitanti, mangiavo, andavo di corpo regolare e correvo con piacere. Da adolescente vomitavo da ubriaco poi dormivo. Da quasi quello che sono cominciai ad avvertire un senso di nausea. Oggi lo sento, mi sta addosso, sale dai piedi si ferma alla gola, e mi sta addosso come  alle calcagna, tutto il tempo. Non provo disgusto per l’umanità, affatto. Provo disgusto, ecco tutto. Mi piace stare fra gli altri, riesco ad intrattenere anche buone relazioni. Ma la nausea, dietro, di spalle, poi davanti, di soprassalto, poi dall’alto, dal basso…  Sono nauesato, anche ora, per esempio, mentre ripenso. Pensare mi rende infine stanco oltre che nauesato. Perché sono un inetto. Non sono in grado di avere relazioni con le singole persone, l’ho detto. Mi fa orrore anche solo l’idea di dover creare un’intesa, capisce, una cupola, una conscenza autentica peggio ancora avvolgermi a un altro. Non ho amici, ma in mezzo agli altri ci so stare. E lei poi, non so cosa voglia dire stringere un corpo tra le braccia mie flaccide, cosa voglia dire guardarsi negli occhi e dormire insieme, tanto peggio. La nauesa. Al lavoro, sarà stato il primo giorno, credo, sedetti alla scrivania e dopo un paio d’ore di pratiche commerciali, urlai, beh... sì, il tono era alto, urlai SIGNORI, LA NAUSEA. Risero i colleghi, risero senza manco chiedersi dove fosse la nausea, cosa volessi dire, o se stessi per vomitare. Incapace, capisce, incapace, per quanti sforzi voglia fare, quanti bei capelli spazzolare, non c’è nulla che mi porti alla sazietà, all' inverso vomito. E me ne sto qui, a fissare lei fuori dal treno, un piede dentro, l’altro fuori. Lei che suda, che s’appicica alla carne, al pensiero… lei che il senso di nausea me lo schiaccia per i minuti che verranno… “ Signore, e adesso come si sente? Signore?!”, sentii  stringermi il braccio, trasalii. Un uomo mi fissava preoccupato e incuriosito insieme. Lo rassicurai che andava tutto bene, ero sudato, continuava a fissarmi. Dopo un minuto circa riprese: “ signore, non vomiti qui, la prego” . Capisce, replicai, uscii dal vagone. 

sabato 25 febbraio 2012

Tu


Ho accumulato cumuli e macerie di prosa malconcia. D’ improvviso, la disfatta.                                                                        
 Ma se volti il foglio, tu, non ci vedi più niente a parte le clausole che hai firmato.  
   
E adesso schiacciati gli occhi nel buio e sfregateli con le dita adagio adesso che siamo qui per riposare…

Ogni giorno perdo le parole, come quando si dice si muore ogni giorno. Vivere con i colori in bocca, lì lì, tra il dentro e il fuori, e niente. Dopo la morte segue un sussulto e l’ereditarietà è un tarlo che batte maledetto. La continuità: silenzio e scrittura. Le arpe, le voci, gli occhi chiusi, sfregateli con le dita, le forme antiche, una semplicità indelebile a metterle insieme a ricomporle a disfarle e a mutarle, le parole. Lui si pisciava addosso mentre un click lo osservava, e risplendeva di chiari ossimori il suo passato. Lei è ferma di spalle, sguardo sfregato schiacchiato sotto le lenti scure, di spalle, con posa sicura e lui sembra un perfetto imbecille, impaurito e pisciasotto, come i bambini. Se vuoi ti porto un bambino, non ti offendere. Allora prendono a discutere, e tu che li ascolti oltre la parete non t’avvedi se ciò che senti è reale. Tutto muore, banale. Ѐ tempo di morire, tempo di vivere. I seguci tuoi non sono mai esistiti, filtra un soffio tuo di vita attraverso l’Amico del treno, del caaaso. Poi, niente. Poco e niente. Ricordi, ricordi, ricordi. E non vediamo invece naturalmente niente. T’ avrei chiesto: -che vedi?-, se i colori non li possiedi, i figli sono usciti dall’utero, le madri si sono unite in lotta,  le forme antiche si rinnovano, sempre, contro sempre, il tempo, le fotografie le hai lasciate corrodere per non ucciderti, e i colori con gli occhi schiacciati sono più belli. Allora schiacciami. E tu schiaccialo. E tu schiacciami. Schiacciami gli occhi e poi sfregameli con le dita adesso adagio perché tanto tu con questi occhi vedi niente. Fai così, come te lo dico io, che te li schiacci, che me li sfreghi. Ecco così, con le dita adagio e poi ancora dentro di te li vedi i colori e le forme e le chimere? Adagio, niente. La bocca spalancata, gli occhi schiacciati sssccchhiacciaati cc sss hhhh gli che te li sssffreghiiiii, contro tro tro tro con tro se contro sempre. Contro forme antiche si rinnovano contro sempre IL TEMPO sempre contro tro tro tro tro contro il nemico di classe la resistenza si rinnova in forme antiche contro il nemico di classe sempre il tempo ilteilteilteiltempo.                                                                 
   

 Si rinnova, sempre.                                                                                                

martedì 21 febbraio 2012

Non esitono più le mezze stagioni

Stagione, ho titolato un blog nel nome tuo, nella grigia e meschina ambizione di vederti asfaltata.
Ora ciò che vedo intorno a me è un mare che sprofonda nel grigio dei suoi giochi di luce, dove tutto brilla per un attimo e poi svanisce. Beato l'imbecille, che ad ogni giornata di sole ti invoca ridendo, beato il convinto che affermerà di vederti passare e convincerà gli imbecilli che convinti di vederti passare ti nomineranno altre volte. Mi piego al caos dei sentimenti, non più delusi dalle vecchie esperienze che non si fanno ancora ricordi. Non siamo arrabbiati, siamo solo cani che non hanno scelto il padrone. Non siamo animali, solo che qualcuno ancora mastica carne cruda e vive di rancori. Un giorno, Stagione, vedremo gli uomini a braccetto, le coppie improbabili, le bocche parlare e mai più nessuna scusa. Uno per strada mi ferma e mi consiglia di svoltare a sinistra; un altro mi stringe forte il polso e mi fa male, mi dice di restare, che ci sarà da divertirsi.
Ma non ho più forze, Stagione, nemmeno una più. Solo volontà, a gocce, a sputi, a sprazzi. Il prossimo che passa di qua e mi parla di stagioni prossime a grandi cambiamenti, giuro che gli mostro le stagioni asfaltate.

domenica 12 febbraio 2012

Intro secolare


La neve col suo candore ha una forte valenza simbolica. S'intende che il candore e il pallore della neve che scende a gocce, a piccoli sputi, costringe l'uomo alla resa dei sensi e alla pulizia dell' anima. Per questo chi scrive non ama la neve. Ama solo guardarla, in circostanze speciali.
L'inchiostro è traboccato fuori dal contenitore, gli occhi si chiudono e la penna ammazza. Fuori dai se e dai ma, nello splendore del silenzio, niente sarà più edificato in nome dell' incapacità. Il corpo risponde sempre a degli stimoli. L'amore non esiste: non è che uno stimolo neutro che poi si fa incondizionato e infine ricercato. Immagino sempre con ardore le vite degli altri, controllo con stizza l'orologio profumato, mi agito se s'interrompe la musica, crollo se gli uomini si fan beffa degli altri consapevolmente. Uno è intelligente fintanto si rispecchia nello stupido; uno è uomo fintanto si riconosce in un altro uomo e allora in se stesso. Le dicotomie servono per definire, le differenze per conoscere le sfumature, le differenze servono per capire che le apparenze sono illusioni. Le mani fredde assumono le temperature del mio dentro, insieme ad una spiacevole indifferenza. Imparare non è mai stato tanto difficile. Allora bisogna vivere, miei cari fratelli, bisogna vivere. Ma cosa vuol dire vivere? Non si fanno queste domande, piuttosto chiedilo all' uomo nella tomba. Clichè, Leonard, clichè. Quell'uomo è morto, tocca, non respira. Quell' uomo ha il viso ciano, una cravatta nuova e scarpe lucide. Eh? Non te lo chiedere Leonard, no. Senti questa, invece: "Il segreto dell' esistenza non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere che cosa si vive." Allora, non chiederti cosa voglia dire vivere, vivi piuttosto con coscienza. Sogna piuttosto, imprudentemente, ama se il cuore ribolle in bocca e poi fallo esplodere. Se dovesse essere, qualcuno saprà raccogliere i brandelli e ricucirli (Leonard s' incupì e si fece rosso in viso. Fuori l'aria era gelida e le carrozze facevano un rumore tale da distruggere per un paio di momenti il silenzio spietato di quella notte. Poi ricominciò a fioccare proprio nell'attimo in cui Leonard si lasciò al pianto. Non ho mai capito per quale motivo pianse di spalle al mare, con il corpo rivolto alla cattedrale e le mani, una in viso e l'altra all' indietro, a mantenersi quasi).
Se è vero che esiste Punteggiatura allora io voglio conoscerla; se è vero che esiste Parola allora non voglio darla a troppe bocche; se è vero che esiste lealtà allora esiste anche il suo contrario. Se è vero che ho scritto tutto questo, allora vuol dire che non ho capito nulla e che ho scritto il contrario di quanto avrei voluto. Evidentemente.

mercoledì 8 febbraio 2012

Post datato.

Sette febbraio duemiladodici.
Rivivere un giorno all' indietro. Daccapo.

Una sveglia che non deve suonare mai, perchè bisogna svegliarsi naturalmente, quando gli occhi si aprono e al fianco, al fianco sinistro un respiro ancora dorme. Un quarto alle cinque. A quell'ora apro gli occhi e l'aria intorno è diversa: l'aria è pesante sebbene fresca, un lavorìo di atomi che si preparano a un nuovo giorno, cordone di quello appena trascorso. L' informazione ottica determina la percezione; la luce scandisce il tempo dei giorni, invece. Ho freddo alla schiena, con un gesto brusco abbandono il calore del letto e mi siedo a leggere e mi siedo a bere la tisana alla liquirizia caldissima, che scivola dalla bocca e mi scalda fino allo stomaco. Un'ora dopo sveglio un pensiero e gli telefono; piccoli versi e piccole voglie s' infilano sotto le coperte che ho abbandonato. Ho rimboccato le coperte a quel pensiero, meglio riprendere a leggere.
L'alba spuntare, le finestre gelare, le case sbadigliare, il vento soffiare, la calamità lavorare. È un altro giorno, semplicemente. La necessità mi costringe al bagno, ride mentre sfilo ogni cosa dal corpo e l'acqua si tuffa nell'acqua; si fa calda.
Lui mi aspetta come accade di rado all'uscio e prepara l'auto bellamente, la fa accogliente, poi conta i minuti e sfreccia veloce: abbiamo sette minuti per essere felici. Lo bacio, solo all'ottavo minuto e salgo sull' autobus e mi diverto a fissare le solite facce, a fissare le solite strade, a fissare il gelo divenire soffice ad ogni goccia e morbido farsi neve. Sono un pinguino impaurito: le piscine non le ho mai viste. Tienimi la mano. Oggi è sette febbraio duemiladodici. La prima sigaretta del sette, un mal di testa simpatico, un sorriso limpido e un' ansia, una sola ansia che sa unire le pelli.
Siedo a un banco e aspetto sconfitta l'ora deludente e la memoria prospettica balbettare. È  già tutto previsto. Lo sapevo; un imprevisto. Riuscirci e correre via via vai via veloce dai sorrisi belli e correre a dare sorrisi, tutti quanti, perchè è deciso: stasera tornerò a casa senza denti. Ma dopo corriamo a lanciarci la neve in faccia? Sì, dopo ci promettiamo di non lasciarci mai, di fermare il tempo ad ora, ad una scena infantile quasi già vista, mentre un ciuffo finisce finalmente il suo percorso e può prenotare la sedia del barbiere.
Il sette febbraio duemiladodici ho visto la neve e l' ho toccata. Il sette febbraio ho visto una mano e l'ho stretta. Il sette febbraio ho visto gli anni scorrere e la gente restare. Il settefebbraioduemiladodici ho promesso alla neve che non avrei fatto sciogliere tutto al sole, che sarei stata capace di avere, senza possedere. Ho promesso alla pozzanghera che le avrei portato un po' d'acqua.
Ho promesso alla bufera che avrei parlato agli occhi.
(Non è mica tutto qui)

venerdì 27 gennaio 2012

L' ora di un uomo.

Verso ora o verso quest'ora, non importa quando, non importa a che ora, una clessidra si rompe e l' irrequietezza appende tutti a un filo.

Privato di tutti i suoi punti di riferimento, ma mai smarrito di orologio, cominciò a farfugliare qualcosa davanti a un cartellone pubblicitario.
"Cosa cercheranno domani i miei polmoni, un bicchiere d' acqua non potabile, un succo di frutta che consola con la sua acidità?
Non trovo più la mia sedia, non riconosco più il mio albero e quindi, non troverò mai neppure il mio tavolo.
Non ricordo più dove ho messo gli appunti  della mia vita, né posso più esagerare sulla costruzione del mio passato. Ho un orologio al polso, uno al taschino (Flaubert fa un inchino). Avevo un carretto sul quale accumulavo ogni oggetto colorato, gli attaccavo un' etichetta bianca adesiva e vi riponevo ogni contenuto di creatività. Le idee lì si fermavano, e io gli davo ospitalità. Siamo tutti ospiti, gli dicevo. Amanda... Amanda era la mia luce. L'ho vista morire all' ora del tè; l'ho vista ricamare le sentinelle del nostro vicolo preferito; l'ho vista allenarsi a giocare a carte. Ma è tutto perduto. Non ricordo più nemmeno la scheggia che aveva nell'occhio. Era di quarzo, questo lo ricordo. Il suo occhio di vetro, la sua gamba di legno. Non posso ricordare, me lo impediscono il tempo, la fama e la biancheria che non porto più."
Così egli rifletteva a voce altissima nella sua testa e fra i denti, fissando con sguardo vuoto quel cartellone pubblicitario issato da due enormi pali grigi, come una vela. Raffigurava una scena di salotto: due uomini ben vestiti, alla moda, che lanciavano un sorriso appetibile; l'uno con mani delicate reggeva una tazzina, l'altro con labbra sottili e occhi sgranati si preparava a dire chissà cosa e ammiccava un biscotto al miele. Tutt'intorno vetrinette da bar con dolcezze e dolciumi, l'aria era calda anche se non la sentivi. E una donna all' altro tavolo, sola. Una scena banale. Un orologio che trascinava lancette su numeri romani e infine, tre lancette: una per le ore, una per i minuti e una per le ossa. Un cartellone pubblicitario per inauguarare uno stupido café. Il quarto in quartiere.
« Sorprendere è un mestiere», questa volta lo disse davvero a voce alta, infatti non si sorprese. Poi cominciò a piovere. Sedette alla sua panchina. Piovve più forte e per tutta la notte. Sedette all' altra panchina, aprì il giornale, cominciò a leggere...

lunedì 16 gennaio 2012

Vago per borghi antichi

  
Vago per borghi antichi
e nuove strade in costruzione,
nessun asfalto m' appartiene.

L' anima chiede asilo
e desidera essere liberata 
dalla patria ostile -il corpo-, 
luogo di meraviglia e perversione.
Ogni uomo è un passaggio di Tempo
e in questo lembo fatto di arbusti
in fiore l'odore è putrido.

Una lucciola mi chiama,
luce del sentiero non posso averti,
bisogna camminare a luci spente.
Marcio per non cadere, 
sbuffo per non sorridere.

Vengo da un posto isolato
e nessun posto m' appartiene.
Evoco ricordi a voce alta, li enuncio,
li sbatto in faccia al vento
ma questo non ascolta.

Vengo da un buio pesto
dove le luci sono illusioni sfuocate
di vita e di morte
e nessun posto m' appartiene.

Sono un sciuscià in cerca di umanità:
dallo sporco della polvere
e dal lercio che un piede qualunque scalcia
giungo a parvenze indelebili nella mia mente.
Risorse di verità in cui il visibile si tinge di rosso.

Massaggio le croste dei cuori altrui 
per passione o per mendicanza.
Giungo in un luogo dell'anima:
respiro,
non m' appartiene.