mercoledì 28 marzo 2012

Corpo di plastica


C’è nell’uomo una paura disarmante: restare nudi. Per nudità io intendo senza vestiti, nudi, senza nemmeno i calzini che formicolano le caviglie, nudi, senza nemmeno un angolo dove rintanarsi, nudi intendo con la pelle al vento, con le intimità e le personalità rese note al di fuori. È una pratica tanto primitiva quanto sconvolgente, capisci, restare nudi? E se poi quello mi fissa, resta lì a guardare il mio pube, le cavità e le rotondità lunari? No, non resisto..
Resiste, ancora un po’. È la mia preda da tempo e comincia a cedere. È mia. Nella mia carriera ho visto crollare molti corpi, pelli e carni, scene d’orgia  senza erotismo, solo corpi precipitare a picco sul mondo. Gli esercizi di nudità non hanno mai fatto male, soprattutto quando vi partecipano corpi giovani, freschi. Solo quando si è davvero in fiore la pelle odora come un petalo. Io sentivo quell’odore colmare le narici, immaginavo la peluria nelle narici muoversi, ondulare, trattenersi nell’inspirare e godersi quell’esalazione delicata fino al cervello, poi giù fin nelle profondità.  Sfioravo ogni corpo, mangiavo e mordevo la carne. Non esisteva miglior lavoro al mondo. Fotografare corpi nudi. Dieci anni di corpi nudi, completamente. Una flagellazione del corpo senza sosta. Gli altri mi elogiavano dicendomi che il nudo viveva attraverso quelle foto, che si riusciva a sentire il peso dello stare al mondo, fisicamente intendevano. Io annuivo e ringraziavo. Come spiegare a quelli che avvertivo un vuoto enorme ogni volta che facevo click con l’indice sul pulsante dell’immortalità? Vedevo attraverso la macchina fotografica quei corpi belli solo nell’odore, forti nell’aspirazione alla non-materia, bellissimi nell’idea del viaggio, nel volersi abbandonare. Tristi e orribili per me, nel restare fermi immobili, incompiuti e inconsapevoli. Cambia posizione, guardami, ruota il capo, avanza, spalanca la bocca, ammicca un sorriso; i pantaloni mi si gonfiavano, le pupille biglie nere. L’odore, il giardino, la serra, i fiori, i petali, profumo.

lunedì 26 marzo 2012

Ricordo di un'ombra


Dicevo all’amico Tom che le ombre non appartengono ai corpi. Sorrise Tom, sorrise a lungo nel suo viso di plastica e canditi. Io continuai a discorrere senza avvedermi della mia incompletezza e della mia ridicolezza. Tornai a casa stanco e sfatto, calciando i sassi che incontravo sulla strada. Un gatto, un’aiuola, nuvole in fuga, luna piena, due rughe all’occhiello e quattro mani e un braccio di cui non ho mai saputo che fare. Pensavo, pensavo all’amarezza che Velcaninov avrà di certo provato nel rendere il conto di quegli anni trascorsi a T.; pensavo a Velcaninov e alla piccola Lisa, la figlia morta, conosciuta per un momento in una stanza d’albergo e poi immaginata. L’ipocondria, spazi immensi, riprenditi. Un mio amico una volta mi parlò di una figlia che credeva sua e che perciò cominciò ad amare, a cullare, a pagare. Poi la piccola morì precocemente e il giorno del funerale seppe che non era figlia sua. Cominciò a disperarsi. Pianse a lungo sulla tomba piccola e nivea, mi raccontò. Quando la stanchezza scivolò dal collo della luna, l’amico alzò la testa e si sorprese nel vedere che fosse già sera. Si spaventò nel vedere la sua ombra che di fianco gli stava in una posa diversa e non riflessa, in piedi, davanti lo fissava.  Si contorceva la tomba di una niňa sconosciuta; il lavoro perso come l’amore facile,  gli occhi sbiaditi e l’ombra che ancora dinanzi restava. Gli chiese chi fosse, ma quella non rispose, niente affatto. La urtò, la spinse e quella niente, poi incalzò vento e se la portò via. Non dormì, non tornò a casa. Bussò alla mia porta, entrò si versò da bere e cominciò a raccontarmi quanto ho ricordato. Risposi che avrebbe dovuto riposare e respirare calmo, fumare una sigaretta e coricorarsi, lì sul letto. Allucinazioni, amico, il dolore fa brutti scherzi. Ma oggi ripenso con stizza alla mia sete di risposte inutili. Oggi capisco: quell’ ombra non era che la sua che lo ammoniva senza giudicare.Sì, le ombre si staccano dagli uomini in preda al panico che s’aggrappano a un’altra vita, l'afferrano con l'uncino, rincorrendola, la vita d’un altro. E dunque, l’ombra si stacca silenziosa, stanca e attonita. Poi spalanca le piccolezze dell' umanità al suo uomo e si lascia soffiare dal vento non potendo più riflettere chi brama l'altrui vite e non gioca più con la sua ombra, con la sua niňa.

domenica 4 marzo 2012

Bell'are


Muore una pecora, sotto gli occhi miei. Muore che io non posso toccarla, è malata dicono, è nera. La fisso finché gli occhi stanchi me li trovo tra le mani. Metto a posto gli occhi e vado via. Ripenso con agitazione alla pecora nera con la lingua di fuori, i denti con un po’ di verde fra le gengive. E m’assale un senso di solitudine. Pensiero secondo: la solitudine, appunto. Mi fa sorridere pensare alla solitudine, è semplice, è sussurrabile. Non avere paura che sarai solo anche tu prima o poi. Ma solitudine è compagna, tu non spaventartene. Solitudine è piacere, tu goditela. Tra le ore sole corpo e anima saranno vicini e potrai toccarli. Se un colpo alla gola senti lascialo lì, cadrà da solo, come i denti dei bambini. Non tirarglieli. Se sceglierai la solitudine, non ci saranno scorciatoie, la lingua s’ammutolirà per un po’, ma il gusto della compagnia non avrà eguali. Ci sono persone che s’adagiano leggeri sul mondo e non te lo dicono e non li vedrai mai. Ci sono tipi di persone: gli “eterni mariti", i mentecatti, le suore gravide, gli avari senza averi, gli sbandati, i tormentati sempre e gli appassiti cronici. Ci sono tanti tipi di persone quanti tipi di malattie e tante realtà quante persone. Tanti giorni quanti il calendario segna e ogni giorno un santo, per crearsi un pretesto, per osannare i giorni. "Noi siamo l'uno per l'altro un teatro sufficientemente grande"                                                                    .