giovedì 25 ottobre 2012

L'evoluzione di un nome.

Buonanotte, sospirò uscendo finemente, con la sciarpa sempre al collo e una sola paura, quella di far del male all'aria. Entrando in casa, posando le chiavi al solito posto, Karl trovò un foglio di carta: il posto divenne insolito, immediatamente.
C'era scritto:

 Non dormo più, e mi inaridisco. Se fuori c'è il sole non ho voglia di uscire, per timore di sorridere. Così chiamo beata la bocca degli altri, che al sole si scalda. Me ne vado via, lo faccio quando è buio. Ho atteso che la luna non ci fosse, che le stelle non bruciassero gli occhi, che le banalità non arrivassero. Scusa, ho bevuto la bottiglia di vino. Ma qui, qui dentro, fa freddo. Fa sempre freddo qui, ma non stasera. Non ti scriverò di modi per cui ringraziarti: non saprei ringraziare le spalle. Coltivo dentro me un fiore, il seme l'ha portato il fiato tuo, domani non nascerà. Tu siediti, ora, prego, come ti dico. Non attraversarti le dita fra quei capelli, non fumare, sì, il bicchiere, il vino. Finiscilo tu. Sono singhiozzi di parole, Karl, stupidi singhiozzi di parole, che stritolano l'esofago, che riempiono le giornate. Fuggo via, lo faccio per noia, per una divisione in sillabe, no-ia, che a voce sembra lo scontro fra le lingue, fra la negazione e l'affermazione. Soffoco, Karl, di noia immensa, di malumore, soffro di inverno. E' la mia diagnosi. Ti ho lasciato lì sul letto l'Abc dei ricordi, ho tenuto con me la Z, ho lasciato a te le lettere e le combinazioni possibili. Ho preso dalla camera in fondo, quella che non apriamo da quel dodici novembre di tempo fa. Io l'ho aperta Karl, ho frugato fra la polvere. Non c'è più niente, nemmeno il suo ricordo. 
Passerò l'autunno fuori. A presto.

Pensò Karl, pensò. E si addormentò. Non ci sono finali, solo nuovi giorni, ogni giorno.

Karl vuol dire Uomo libero.

venerdì 12 ottobre 2012

Il cane e il soldato

Il cane leccò le ferite del soldato: la sua saliva era calda, sporca e arida, ma l'intenzione, la spinta del cane fu così bestiale che il soldato non seppe farlo smettere. Questi rinvenne tra il calore della saliva e le sue stesse smorfie di dolore. Si cercò l'equilibrio, tentò tre passi, al quarto scosse la terra: si alzò in piedi.
Quell'attesa inconcludente, fra rocce e selve, spilli e nemici, lo fece riflettere a lungo, proprio sul senso dell'attesa. Si paragonò a un cane. La sua esperienza in teatro e suo figlio sordo gli insegnarono il valore della mimica e delle parole espresse attraverso il movimento e i gesti della bocca, dei denti, della faccia. Si disse, ripetutamente: mi fa soffrire sentirmi solo come un cane. Sono solo come un cane. 
Nel pensarci, accettò il paradosso.
Stanco tornò a scaldar la terra, in attesa.