C’è nell’uomo una paura disarmante: restare nudi. Per nudità
io intendo senza vestiti, nudi, senza nemmeno i calzini che formicolano le
caviglie, nudi, senza nemmeno un angolo dove rintanarsi, nudi intendo con la
pelle al vento, con le intimità e le personalità rese note al di fuori. È una
pratica tanto primitiva quanto sconvolgente, capisci, restare nudi? E se poi
quello mi fissa, resta lì a guardare il mio pube, le cavità e le rotondità
lunari? No, non resisto..
Resiste, ancora un po’. È la mia preda da tempo e comincia a
cedere. È mia. Nella mia carriera ho visto crollare molti corpi, pelli e carni,
scene d’orgia senza erotismo, solo corpi
precipitare a picco sul mondo. Gli esercizi di nudità non hanno mai fatto male,
soprattutto quando vi partecipano corpi giovani, freschi. Solo quando si è
davvero in fiore la pelle odora come un petalo. Io sentivo quell’odore colmare
le narici, immaginavo la peluria nelle narici muoversi, ondulare, trattenersi
nell’inspirare e godersi quell’esalazione delicata fino al cervello, poi giù
fin nelle profondità. Sfioravo ogni
corpo, mangiavo e mordevo la carne. Non esisteva miglior lavoro al mondo.
Fotografare corpi nudi. Dieci anni di corpi nudi, completamente. Una
flagellazione del corpo senza sosta. Gli altri mi elogiavano dicendomi che il
nudo viveva attraverso quelle foto, che si riusciva a sentire il peso dello
stare al mondo, fisicamente intendevano. Io annuivo e ringraziavo. Come
spiegare a quelli che avvertivo un vuoto enorme ogni volta che facevo click con
l’indice sul pulsante dell’immortalità? Vedevo attraverso la macchina
fotografica quei corpi belli solo nell’odore, forti nell’aspirazione alla
non-materia, bellissimi nell’idea del viaggio, nel volersi abbandonare. Tristi
e orribili per me, nel restare fermi immobili, incompiuti e
inconsapevoli. Cambia posizione, guardami, ruota il capo, avanza, spalanca la
bocca, ammicca un sorriso; i pantaloni mi si gonfiavano, le pupille biglie
nere. L’odore, il giardino, la serra, i fiori, i petali, profumo.